L’intervento riguarda il restauro e recupero funzionale dei chiostri benedettini di San Pietro, il più straordinario complesso monumentale della città di Reggio Emilia. La sfida si è innestata sulla particolare natura dell’oggetto del recupero, un antico monastero inutilizzato da secoli in quanto tale, luogo destinato alla fruizione di pochi e circoscritto all’interno dei suoi chiostri chiusi verso lo spazio circostante, un tempo orti e aperta campagna, con l’obiettivo di aprirlo alla città e alla pubblica fruizione.
Il corpo monumentale si struttura attorno a due chiostri, il più antico dei quali risalente agli anni di fondazione nel secondo decennio del XVI secolo, e testimoniaun momento di incredibile vivicità della architettura monastica e benedettina.Vi si riscontra con straordinaria evidenza non solo un cambio di scala tra i due chiostri ma anche il passaggio dall’architettura rinascimentale ed estremamente misurata del chiostro piccolo a quella tardo-rinascimentale e manieristadel chiostro grande,il cui cantiere fu avviato nel 1541 e in gran parte completatoattorno al 1623.
Il complesso è stato oggetto di molteplici vicissitudini che nel corso dei secoli lo hanno trasformato, a partire dall’epoca napoleonica,in tribunale civile, caserma militare, educandato per fanciulle, mentre le aree di pertinenza conservavano il solo ingombro originario con gran parte dei muri che cingevano il monastero e l’antica scuderia. In quanto area militare poi dismessanegli ultimi anni del Novecento, questo luogo ha rappresentato una zona inaccessibile nel cuore della città storica fino al momento della riscoperta per eventi sporadici come il festival Fotografia Europea. Con l’obiettivo di rafforzarne la naturale e strategica vocazione culturale, il recupero del complesso è stato finanziato con fondi europei tramite il programma regionale POR-FESR Asse 6 “Città attrattive e partecipate” per restituirlo al pubblico come polo culturale di rilievo internazionale.
Il progetto ha coinvolto in un’unica operazione tre interventi strettamente correlati. Il primo ha riguardato il completamento del restauro conservativo del corpo monumentale con l’adeguamento della dotazione funzionale per una fruizione di eccellenza. Il secondoha riguardato la demolizione dei retrostanti corpi minori,volumi incongrui risalenti alla più recente occupazione militare, e la ricostruzione sullo stesso sedime del nuovo fabbricato dei Laboratori Aperti Urbani, in stretta relazione gestionale con il complesso monumentale e in continuità funzionale con l’adiacente fabbricato dell’antica scuderia, anch’essa restaurata come parte integrante dei Laboratori. Infine il terzo intervento ha coinvolto la riqualificazione degli spazi cortilivi e delle aree retrostanti che insistono tra i fabbricati, anticamente connesse al monastero, scoprendone la funzione di attraversamento pubblico e di spazio di relazioneaperto alla città. L’interventoha coinvolto infine il restauro delle facciate dell’adiacente ex caserma Taddei che affacciano sulle aree esterne del complesso monastico.
Il recupero del corpo monumentale è stato condotto attraverso il completamento del restauro conservativo del piano seminterrato, rialzato e dei chiostri, con la sola esclusione del primo piano. Vista la natura e la complessità di questo straordinario edificio, tra progetto e cantiere si è agito con il massimo rigore, tentando di rispondere con coerenza operativa e metodologica, laddove questioni operative hanno contribuito ad affinare scelte metodologiche e viceversa, come accade nei restauri di particolare complessità.
Ne è un esempio la modalità d’intervento adottata nel chiostro piccolo, il primo spazio che si scopre accedendo nella parte monumentale, dove ha prevalso la logica del mantenimento delle tracce del tempo, ad esempio nella pavimentazione in cotto, andando ad integrare in modo puntuale con materiali di recupero ritrovati nel seminterrato dell’edificio stesso e lasciando i segni della consunzione.
Agli avventori più attenti non sfuggiranno certamente i segni delle tamponature delle arcate realizzate in epoca militare in entrambi i chiostri per massimizzare gli spazi dell’antico monastero, tracce visibili nei segni di ammorsature, di chiavistelli e altre “ferite” volutamente lasciate visibili in filigrana durante il cantiere del restauro. Nel chiostro grande invece, della cui pavimentazione non era rimasta traccia se non in fotografie storiche, si è posato un cotto non trattato di produzione a mano e di foggia antica.
Un tempo la costruzione delle grandi fabbriche durava secoli e andava abitualmente oltre la vita terrena dei loro ideatori e costruttori. Erano in un certo senso entità dinamiche che lasciavano in eredità alle generazioni successive parti anche estese non completate, rispetto alle quali erano tenute a proseguire i lavori adeguandoli alle ulteriori trasformazioni che il complesso richiedeva. Risulterebbe errato immaginare tali fabbriche come entità staticamente congelate in una condizione impropriamente originaria, perché non completate o per il continuo protrarsi nel tempo di azioni di completamento.
I Chiostri di San Pietro ricalcano la casistica di altri complessi coevi di grandi dimensioni, mostrando segni di trasformazioni stratificate, parti incomplete e altre incompiuteda interpretare con attenzione. Si sono mantenute le tracce delle modificazioni che il complesso ha subito nel tempo, conservando in filigrana i segni delle alterazioni e dei cambi di destinazione, valorizzando il carattere di non-finito evidente in diverse parti, una condizione diventata il filo conduttore del nostro intervento non solo per la parte monumentale. È con questo spirito di riscoperta e valorizzazione che sono stati affrontati il progetto e il cantiere di restauro dell’intero complesso.
L’aspetto più rilevante e che ha richiesto il massimo rigore filologico è stato l’intervento sul Chiostro Grande. Assodata tramite autorevoli attribuzioni e pienamente documentata la presenza di Giulio Romano a Reggio Emilia, datata nel lasso di tempo tra il 1538 e il 1542, in concomitanza con l’impegno a fianco dei monaci di San Benedetto in Polirone per la riforma della chiesa abbaziale, resta da comprenderne più a fondo il reale contributo nella città emiliana, che molto probabilmente si spinge fino al 1546. Mentre è documentata la realizzazione su suo disegno del campanile della chiesa di San Prospero, quasi coevo al progetto della Rustica e del Portale della Dogana a Mantova, è altresì sancito da Bruno Adorni il contributo di Giulio Romano per la realizzazione del chiostro grande del complesso di San Pietro.
La questione che al contrario ancora oggi lascia ampi spazi interpretativi, in merito alle ragioni dell’anomala condizione del Chiostro Grande, è quella dell’attuale quota ribassata del cortile e l’affiorarvi della parte muraria basamentale, oggetto di un dibattito, in assenza di documenti attendibili, su quale fosse il livello e la natura del pavimento nel progetto originario. Lo stesso Adorni si sofferma in termini di congettura sulla ricostruzione storica della possibile realizzazione di un riempimento di terra probabilmente mai completato o parzialmente iniziato e poi eventualmente rimosso nei secoli successivi.
Parrebbe logico che la quota dovesse essere di poco ribassata rispetto al piano di calpestio del loggiato, aspetto evidente osservando le aperture in corrispondenza delle serliane centrali che aggettano nel vuoto o il bugnato sbozzato vistosamente leggibile nella parte basamentale sottostante, dove oltretutto affiora la struttura degli archi di scarico delle volte con geometrie differenti, segno di un cantiere interrotto poi ripreso con il progetto giuliesco. Ma il chiostro grande oggi restituisce in maniera del tutto naturalela straordinaria condizione storicizzata di un non-finito, che riconfigura il cortile come un’arena o una cavea idealmente ribassata rispetto al portico del Chiostro Grande e posta alla stessa quota delle aree cortilive circostanti.
L’aspetto odierno è quello di un’anomalia tipologica unica nel suo genere, che genera uno straordinario colpo d’occhio a chi accede al Chiostro Grande dalla quota ribassata, permettendo l’utilizzo autonomo del cortile rispetto al portico del chiostro stesso. Tale condizione permette non solo una fruizione diretta dagli spazi esterni, ma anche un utilizzo privilegiato per eventi, situazione che il progetto ha valorizzato ed enfatizzato anche in relazione alla scelta della pavimentazione.Il Chiostro Grande ribassato e così pavimentato diventa ancor più chiaramente un interno o una grande sala senza copertura, rimarcando un’intenzione implicita nella natura formale del chiostro come stanza all’aperto. L’immagine dell’incompiuto tramuta e trasmigra verso quella del non finito in senso michelangiolesco, ritrovando una propria compiutezza formale.
Si è poi scelto marcatamente, per coerenza metodologica rispetto a quanto sopra, di rivelare il non-finito anche nella finitura muraria della parte basamentale affiorante nel chiostro grande, lasciando in filigrana sotto una velatura tutte le tracce delle trasformazioni stratificatesi. Tra queste rimangono particolarmente evidenti le “cicatrici” degli scaloni esterni, demoliti già nel corso del precedente cantiere condotto dalla Soprintendenza, e realizzati in epoca ottocentesca per accedere al cortile dal loggiato, ovviando alla chiusura dell’ultimo rampante della scala che conduceva al piano seminterrato.
IChiostri di San Pietro testimoniano una condizione di non-finito anche in senso planimetrico, poichè evidentemente il complesso era destinato ad un ampliamento verso est, come dimostrano non solo i disegni attribuiti a Giulio Della Torre (1584-1585), ma anche l’odierno stato della grande parete cieca che delimita il corpo monumentale verso le aree cortilive ad est, a tutti gli effetti un fronte privo di decori o elementi di rilievo se non bucature tamponate pronte ad essere riaperte al momento dell’ampliamento a servizio delle future celle. E del resto non si spiega altrimenti la straordinaria dimensione e respiro del chiostro grande rispetto al numero ridotto di locali presenti nelle ali nord ed ovest.
Il non-finito è diventato il punto di vista, il metodo e il filtro concettuale per ogni scelta che ha riguardato l’intero complesso, incluse le addizioni e gli spazi aperti. È un principio che amplia il significato del contesto, interpreta ciò che non è visibile, lo amplifica e vi pone un limite non formale, non definitivo, presupponendo semmai come possibile punto di arrivo una compiutezza di ordine superiore. Seguire questo approccio è stato un modo per lasciare aperto il progetto, dischiudendo e affinando il metodo nel farsi.
Questa condizione di non-finito anche in relazione alle aree cortilive ha consentito concettualmente di considerare lo spazio retrostante come autonomo rispetto al corpo monumentale, con il quale pure mantiene, alla quota ribassata del chiostro grande, un rapporto diretto. Tale relazione viene rimarcata dall’unica apertura che, dalla quota del piano rialzato, è stata mantenuta con l’affaccio diretto verso le aree cortilive e l’antica scuderia, consentendo di percepire per intero e da una posizione elevata i muri di cinta che un tempo delimitavano le zone produttive del monastero.
Si è intervenuto attraverso scelte coerenti con il restauro del fabbricato anche laddove vi erano elementi funzionali mancanti. Lo sforzo maggiore è stato verso la ricerca di un equilibrato rapporto tra i materiali nuovamente inseriti e quelli attentamente restaurati. Scomparsi già dall’epoca del riuso a caserma i portoni originari attorno ai porticati dei chiostri ed il portone d’accesso al monastero, si è scelto di rendere chiaramente riconoscibili i nuovi inserimenti con una forte connotazione materico-cromatica. Come i carter che celano i ventilconvettori, sono realizzati in ottone brunito e dialogano a distanza come elementi che ammiccano ai materiali antichi e come tali invecchieranno con l’usura prendendo la patina del tempo. In particolare i nuovi portoni delle sale del chiostro grande dialogano per ricchezza materica coi portali barocchi in stucco arricchiti da elementi plastici che le incorniciano.
Tra le parti riscoperte, la più importante è stata la riapertura del vano e dell’ultimo rampante della scala seicentesca, rimasti segregati con funzione di deposito dalla parte dell’adiacente chiesa di San Pietro al momento della separazione, in epoca ottocentesca, tra il monastero e la sua chiesa. Questa operazione ha consentito di evitare la realizzazione di nuovi corpi scala esterni, restituendo per intero l’antico scalone e la possibilità di scendere al livello seminterrato, riscoperendovi lo splendido cortiletto prima inaccessibile, posto tra il monastero e la chiesa.
Si è inoltre intervenuto sui collegamenti verticali realizzando, in un vano posto alle spalle dello scalone novecentesco e privo di decori o elementi di pregio, un ascensore che collega tutti i livelli dell’antico monastero a partire dal piano seminterrato. Nuovamente accessibile, questo livello riaperto al pubblico consente di fruire degli spazi che danno accesso diretto al chiostro grande tramite il corridoio ad anello corrispondente al loggiato soprastante. Nei vani riscoperti a lato del corridoio sono stati realizzati il nuovo blocco dei servizi igienici nell’ala ovest e i locali impianti nell’ala nord.
I Laboratori Aperti Urbani rappresentano la “macchina” gestionale del complesso, aspetto enfatizzato dalla forma architettonica e dall’emergere nella grande copertura inclinata dei volumi tecnici a servizio anche del corpo monumentale, evitando di portarvi in copertura macchinari incompatibili con la straordinaria architettura dell’antico monastero. Realizzato sul sedime di edifici di servizio di epoca militare già destinati alla demolizione, il nuovo edificio, ad un solo piano con ballatoio, definisce il completamento e la chiusura a nord del complesso monumentale, rappresentando idealmente il limite ed il bordo verso la città novecentesca che si trova alle spalle.
Concepito come sequenza di tre grandi spazi seriali, è improntato alla massima flessibilità interna anche in relazione agli spazi esterni e ai cortiletti che favoriscono la ventilazione naturale passante. La facciata sud consente il massimo apporto dell’illuminazione naturale controllata attraverso una sistema in policarbonato e listelli di legno, da cui emergono le testate dei setti in calcestruzzo per denunciare la scansione degli spazi interni.
Tutte le strutture murarie sono in calcestruzzo bianco dilavato e lasciato a vista. La vetrata che corre per tutta la lunghezza dei laboratori consente la vista ininterrotta del muro perimetrale dell’antico monastero ed esclude la vista della parte superiore, come a sottolineare un ambito protetto e racchiuso nel cuore della città. L’aspetto seriale, la nuda struttura, il ritmo della facciata nella ripetizione dei suoi elementi costitutivi e nell’interrompersi dei listelli all’emergere della testa delle travi, tutto questo concorre a richiamare un dialogo a distanza con l’ordine monumentale dell’edificio antico e la sua parte basamentale non finita.
Il recupero dell’antica scuderia, posta sul lato terminale verso est delle aree cortilive, è stato condotto con gli stessi criteri adottati per la parte monumentale, in questo caso nei confronti di un edificio di servizio di minore pregio e del tutto privo di apparati decorativi. Anticamente adibito al ricovero dei cavalli del monastero prima e della caserma poi, il fabbricato è stato oggetto di molteplici trasformazioni nei secoli, che solo in parte ne hanno conservato il carattere originario. Rimane ed è stato recuperato lo spazio voltato al pianterreno e si è riscoperta la spazialità unitaria del piano superiore, recuperandone la copertura lignea.
Nelle facciate si sono riscoperte le bucature originarie e l’antica tessitura muraria trattata con una velatura a calce che consente di leggere il paramento murario con le sue “cicatrici”. L’obiettivo è stato anche quello di ricercare un’equilibrata relazione tra antico e nuovo attraverso un dialogo materico con l’adiacente edificio dei Laboratori. In testa ai due fabbricati, laddove convergono, si è riscoperto l’antico cortiletto posto a lato della scuderia e la parte più antica del muro che originariamente cingeva le aree retrostanti del monastero, oggi fulcro visivo dei portali che definiscono gli spazi interni dei Laboratori.
L’intervento si è completato con il recupero delle aree cortilive, prima del cantiere piazzali asfaltati derivanti dal prolungato utilizzo a servizio della caserma. Con l’obiettivo di recuperarli come elemento di connessione tra i fabbricati e come luogo pubblico di libera fruizione, la definizione dei nuovi spazi si è raggiunta attraverso la riscoperta delle relazioni visive e dei collegamenti tra corpo monumentale, scuderia, nuovo edificio e spazi aperti, ma anche con la piantumazione di grandi alberature, con un nuovo ed articolato sistema di illuminazione che contribuisce a valorizzare e definire gli ambiti recuperati e con una nuova pavimentazione in calcestre che rimarca la continuità dello spazio pedonale.
Come un suolo naturale da cui emergono gli edifici, questa trova il suo culmine nel Chiostro Grande a cui si accede in continuità con le aree cortilive. Per rimarcare l’aspetto di suolo naturale da cui affiora la parte basamentale del Chiostro Grande e per rafforzarne il carattere di non-finito, si è lasciato un distacco tra la pavimentazione in calcestre e l’ultimo tratto di muratura grezza, definito da una canalina a sfioro che consente il deflusso dell’acqua piovana, dietro alla quale e fino al muro antico si è stipata ghiaia di piccola pezzatura.
La pavimentazione è una miscela di frantumato di cava di marmo botticino con inerte di provenienza locale che dona una colorazione giallo-nocciola dall’aspetto più naturale e meglio integrata con le cromie dominanti della parte monumentale. Pur consentendo la carrabilità per il carico e scarico, gli spazi esterni dei Chiostri di San Pietro sono esclusivamente pedonali, con la funzione di sostare e godere della quiete di un luogo centrale privo di elementi di disturbo.
La pavimentazione in calcestre prosegue in maniera ininterrotta ricucendo spazi interni ed esterni del complesso, il cui suolo è elemento di continuità che contribuisce a restituire un’unitarietà materica e percettiva anche in relazione ai fabbricati. La stessa unitarietà è stata ricercata nella scelta dei materiali dell’intervento complessivo, nello studio delle proporzioni tra le parti, nell’equilibrato rapporto tra gli edifici, nel modo in cui dialogano tra di loro e con gli spazi esterni.
Il verde nuovamente inserito è unicamente del tipo verticale, anche per consentire la massima flessibilità nell’utilizzo degli spazi pubblici, ed è definito dalle grandi chiome dei platani adulti, che contribuiscono alla nuova definizione degli spazi apertie dai rampicanti che, dalle “asole” in ghiaia sul perimetro dei cortili, salgono sui muri antichi che originariamente cingevano l’antico convento. Recuperati riscoprendone la tessitura muraria antica, questi ultimi sono valorizzati come una quinta che definisce i bordi dell’intero complesso recuperato.
Originariamente l’ingresso al monastero avveniva dal sagrato dell’adiacente chiesa di San Pietro attraverso il Chiostro Piccolo, anticamente denominato chiostro della Porta. È in epoca più recente che l’ingresso si è consolidato sul lato opposto, attraverso il cortile d’ingresso dalla via Emilia, dove un tempo si trovavano gli orti e le aree produttive del complesso monastico, confinati entro muri ed accessibili unicamente dall’interno.
Confermando l’ingresso consolidato su questo lato, restava la problematica della definizione di una rampa per consentire la più ampia accessibilità all’edificio antico. In ragione di questi aspetti, la nuova rampa che conduce al corpo monumentale si stacca da questo come elemento architettonicamente autonomo, contribuendo piuttosto alla definizione del bordo del cortile di ingresso rispetto al percorso pedonale che prosegue in direzione nord. Il parapetto in fitti listelli di legno, marcatamente sovradimensionato rispetto alla mera funzione di protezione, richiama costruttivamente la facciata dei Laboratori e risvolta orizzontalmente come seduta sul lato esterno.
L’alta spalliera, che prosegue per tutto lo sviluppo della rampa e risvolta verticalmente in corrispondenza dei gradini sul lato opposto, indirizza visivamente verso l’ingresso e definisce un gioco percettivo, accompagnando alla quota rialzata del Chiostro Piccolo che si scorge progressivamente sullo sfondo. Ma l’aspetto di gran lunga più rilevante dell’intervento è stato l’aprire nuovamente l’accesso al complesso monumentale dai due lati contrapposti, dalla via Emilia e da via Monte San Michele, consentendo un attraversamento impedito da secoli e aprendo alla città gli antichi spazi riscoperti e oggi liberamenti fruibili.
Condotto sotto la supervisione della Soprintendenza ai Beni Architettonici, l’intervento è stato orientato alla ricerca di una relazione equilibrata tra il riscoprire spazi e l’insediarvi usi compatibili, lasciandosi guidare dalla matrice benedettina di questo straordinario complesso, magistralmente espressa da Paolo Rumiz: «Quale equilibrio è possibile tra la necessità di aprirsi al mondo e il fascino concluso del chiostro? Tutta la vita benedettina è segnata da questa dialettica».